Un Inter-MIlan da sogno se non per il gioco sicuramente per il risultato. Ma soprattutto che goduria vedere Lukaku lottare così…
Forse contava poco. O comunque meno. È quasi certo che, nei bar di Milano e del resto d’Italia (dove comunque vivono, rivaleggiano e si punzecchiano enclave di Inter e Milan), questa mattina il rito dello sfottò si risolverà in pochi scambi di puro dovere calcistico.
Perché ci sono regole da rispettare e non puoi certo far finta di nulla, se ti porti un derby a casa: evitare di recapitare almeno una pernacchia a chi l’ha perso sarebbe come negare la storia, disconoscere i quarti di nobiltà dell’avversario, negargli l’onore delle armi.
Insomma, sarebbe un’offesa simbolica nell’offesa reale, matematica (anche se relativa alla sola cifra uno: il gol di Lautaro) della sconfitta.
Il Derby numero 178 tra Inter e Milan non ha avuto storia: la differenza evidente di convinzione, lucidità, tecnica e sicurezza dei nerazzurri (il cui paradigma perfetto è stato lo sguardo da killer di Lautaro Martinez, rigenerato, anzi trasformato in un altro attaccante dalla vittoria ai Mondiali, per di più galvanizzato dalla fascia di capitano) ha messo in un angolo gli spaventati e rinunciatari rossoneri (colpa di Pioli? Con questo quesito se la dovranno vedere dirigenti e tifosi del Milan, noi non ci mettiamo becco).
Sul fronte Inter segnali di catarsi, a cominciare da Romelu Lukaku: se non il Superman di due anni fa, il colosso belga sembra tornare a essere un calciatore, anzi perfino un attaccante che vede la porta: vederlo accanirsi, da sdraiato in area nel finale di secondo tempo, su quella palla calciata in rete (per un goal irregolare) è stata vitamina per le nostre fantasie.
Inter-Milan, oltre alla vittoria c’è di più…
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Inter-MIlan, che goduria vedere Lukaku lottare così…
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Tutto bene, dunque? Mah. La verità è che il pensiero del tifoso nerazzurro al fischio finale di Inter-Milan non è corso alla classifica, alle chance consolidate di ritagliarsi un posto a sedere nel salotto Champions, a ribadire – a soli venti giorni di distanza, caso raro e prezioso – il primato cittadino. Non è stato nemmeno l’essersi tolto uno sfizio vendicando quel derby del 5 febbraio scorso (stessa data nel calendario) che capovolse, con le evoluzioni da rapace di Giroud – quello non acciuffato da Steven Zhang per una manciata di spiccioli sul mercato – i rapporti di forza in campo.
Nelle teste degli interisti (perlomeno della maggioranza, ne siamo certi) pattinava agile sul ghiaccio delle occasioni sprecate una frase sola, la seguente: “Ma come diavolo abbiamo fatto a regalare lo scudetto a questi qui?”.
Che non erano esattamente questi, sia chiaro, nella stagione scorsa. Ma il pensiero è ancora più urticante: perché noi, anche questo lo sappiamo, eravamo comunque migliori. Lo eravamo allora, lo siamo oggi.