A guardare gli occhi lucidi dei suoi giocatori al triplice fischio di Slavko Vincic il quesito a Vincent Kompany sarebbe dovuto essere d’obbligo: mister sei ancora così sicuro che nella gara di andata l’Inter abbia festeggiato troppo? Domanda retorica, perché – nonostante la pesantissima affermazione dell’Allianz Arena – si sapeva che ci sarebbe stato da soffrire. A dir la verità non così tanto, almeno al termine dei primi quarantacinque minuti di questo Inter-Bayern Monaco già consegnato alla storia dal “francesismo” di capitan Lautaro. Per lunghi tratti il solito muro di Champions League alzato da Yann Sommer e soci ha retto senza problemi alle sterili folate dei bavaresi. Ma si è inaspettatamente sgretolato al minuto 52. È bastato un attimo, che Francesco Acerbi perdesse di vista Harry Kane.
Eppure, dopo lo schiaffo ricevuto da una delle società più importanti del mondo, l’Inter si è rialzata e ha risposto con ferocia al colpo subito. Come solo le grandi squadre sanno fare: con la rabbia del Toro e il tempismo di Benjamin Pavard. Per il francese il classico gol dell’ex, primo della sua avventura in nerazzurro e accolto dal ruggito del Meazza. Quindi l’infinito quarto d’ora finale, scosso dal fortunoso 2-2 siglato da Eric Dier. Ecco l’anima più profonda degli uomini di Simone Inzaghi, quella del sapersi sporcare quando proprio non si può utilizzare il fioretto.
Così il Bayern Monaco – che a San Siro nella sua storia aveva sempre e solo vinto – si è dovuto inchinare al fattore Simone Inzaghi. Seconda semifinale di Champions League negli ultimi tre anni, quindici primavere dopo ancora il Barcellona tra la Beneamata e l’ultimo atto. Non ci sono più Xavi e Messi, il tiki-taka ha fatto il suo tempo. Non c’era paura allora, non ce ne può essere oggi. C’è solo l’Inter e la sua consapevolezza di essere non ingiocabile, ma tremendamente forte. E ci sono (almeno) altre due notti di sogni, di coppe e di campioni.