Tre partite, solamente tre punti. Solamente Gian Piero Gasperini riuscì a fare peggio: la miseria di un pareggio nelle prime tre gare giocate. Una partenza così non si vedeva dall’alba del nuovo millennio, quando Marcello Lippi abbandonò baracca e burattini al primo triplice fischio della stagione, lasciando la patata bollente all’impreparatissimo Marco Tardelli. L’Inter gioca ma non vince, incapace in due casi su tre di capitalizzare il lavoro della fase offensiva. Sì, perché – lo ribadiamo a chi dovesse ancora avere il prosciutto sugli occhi – i problemi della squadra di Cristian Chivu sono da ricercarsi nelle fondamenta. Non nelle bocche di fuoco.
Miglior attacco, peggior difesa
Per chi se lo fosse dimenticato Lautaro Martinez e soci contro l’Udinese erano passati in vantaggio (salvo addormentarsi per una decina di minuti prima dell’intervallo). Pure all’Allianz Stadium dopo aver rimontato per ben due volte la Vecchia Signora i nerazzurri hanno avuto la forza di mettere la freccia del sorpasso. Poi i soliti inspiegabili, incommentabili, sanguinosi dieci giri di lancette. 4-3 per la Juventus e ospiti spediti all’inferno. Manco fossimi i cugini del Milan.
Miglior attacco e peggior difesa. Questa, ad oggi (e nell’ultima parte della scorsa stagione) è la fotografia di un’Inter che da ambizioni tripletiste si è scoperta più piccola che mai. Ha ragione da vendere Paolo Di Canio quando vede “all’Inter, in piccolo, quello che è successo al Manchester City l’anno scorso. Nessuno ha più paura dell’Inter, anche se domina la partita e va sopra di due gol”.
La crisi dell’Inter: una questione di (mancato) coraggio
La forza, intesa come qualità tecnica, da sola non basta. E il gioco, quando diventa improduttivo – cioè non porta punti – si trasforma in specchietto per le allodole. Da Juventus-Inter 2024/25 a Juventus-Inter 2025/26, da quel “ci sentiamo ingiocabili” di Henrikh Mkhitaryan all’inutile consapevolezza di aver dominato di Alessandro Bastoni.
Come uscirne? Otto lettere, una parola: serve coraggio. Di tornare alla tenda dopo anni in cui si è occupato il palazzo. Ovvero, declinando il concetto politico in linguaggio calcistico, i giocatori dell’Inter devono aver il coraggio di rimettersi in gioco, di tornare a sporcarsi le mani. Non è più il tempo delle scarpe da ballo ma del coltello tra i denti.
A Cristian Chivu invece il difficile compito delle scelte impopolari. A Torino qualcosa si è visto. Tolti gli spenti Barella e Lautaro con i suoi cambi l’avrebbe pure ribaltata, se non fosse stato per il black-out finale. In soldoni: se i senatori – Yann Sommer e il sopracitato armeno su tutti – non rendono più, si accomodino pure in panchina. Il mercato d’altronde è stato fatto proprio in quest’ottica. Pochi mesi fa il tecnico romeno si è autodichiarato un dittatore democratico. Ecco, nella polis nerazzurra ogni discorso sul governo del popolo sia rimandato a tempi migliori.



